E’ un luogo comune che, inspiegabilmente, ancora persiste: nel B2B non si può fare storytelling. Non c’è tempo per raccontare storie; si deve andare dritto al sodo. Che il più delle volte significa parlare al cliente delle caratteristiche del prodotto e del prezzo (possibilmente più basso di quello della concorrenza).
Forse una volta era così: il rapporto tra aziende era mantenuto su un piano più impersonale, da “mondo degli affari”, appunto. Ma oggi che la competizione è così forte, il ruolo dello storytelling nel business to business è forse persino più determinante che nel business to consumer.
Restare su un piano di formalità “perché così fanno tutti” genera un circolo vizioso per il quale nessuno – né da una parte, né dall’altra – si prende la briga di tentare nuove strade («perché potrei perdere il cliente») o sperimentare nuovi approcci.
E pazienza se il vero valore del prodotto o servizio non viene percepito e si è costretti ad utilizzare esclusivamente la leva del prezzo.
E se invece si iniziasse a rovesciare il paradigma e a pensare alla comunicazione tra aziende come ad una comunicazione tra persone?
Il coinvolgimento emozionale è una leva potentissima anche nel B2B. Le aziende, infatti, sono fatte di persone. Anche il top manager di un’impresa viene influenzato da chi gli sta intorno, dal suo background culturale, dalle sue emozioni, dai suoi desideri, dalle sue esperienze umane e professionali, dalle sue manie e dai suoi gusti.
E dunque, non è poi così strampalato (o impossibile) pensare di attivare una comunicazione che dal business to business passi al business to human.
Una comunicazione, cioè, che instauri delle relazioni tra persone in quanto tali.
Lo dice anche una recente ricerca di Google, dalla quale emerge che, contrariamente a quanto si crede, il consumatore nel B2B è coinvolto emozionalmente con il venditore molto più che nel B2C.
E questo non deve stupire. Basta pensare che il rischio di un acquisto sbagliato da parte di un dirigente genera conseguenze di gran lunga peggiori rispetto a quello di un consumatore normale.
Per capirci: se io, in quanto consumatore, acquisto un prodotto o un servizio che per qualche motivo non va bene o non mi soddisfa, posso chiedere indietro i soldi o posso rivolgermi al servizio clienti e farmelo sostituire o riparare.
Se un dirigente fa un acquisto e sbaglia, invece, sono guai seri. Magari ha investito parecchi soldi; magari ha dovuto fermare la produzione. Un dirigente o un responsabile acquisti non può proprio permettersi di sbagliare, perché le conseguenze possono essere gravi al punto da creare difficoltà economiche alla sua azienda (crisi, perdita di posti di lavoro ecc).
Quindi, è naturale che, nel B2B, il cliente tenda ad andarci cauto e a pensarci bene prima di fare un investimento in nuovi prodotti o servizi.
Questo è uno dei motivi per i quali il processo di acquisto nel B2B è così lento, farraginoso, a volte snervante per chi deve vendere.
Ecco perché è proprio nel B2B che serve un maggior coinvolgimento emozionale e di empatia; una migliore capacità di entrare in una relazione di fiducia e di trasparenza con il cliente.
Perché più che nell’ambito del B2C, è qui che entra in gioco la reputazione del brand se si vuole sperare di “abbattere le difese”, cioè spezzare le obiezioni, della controparte.
La ricerca di Google mette in evidenza anche il fatto che nel B2B il cliente ha il 50% di probabilità in più di acquistare un prodotto o un servizio se intravedono un vantaggio anche personale.
Ad esempio, un avanzamento di carriera o, più semplicemente, la possibilità di vedersi riconosciuto il merito di aver fatto l’acquisto giusto e quindi di accrescere la stima di colleghi e superiori.
In questo senso, lo storytelling è un’arma potentissima, perché è proprio quello che serve per far balenare davanti agli occhi del cliente la possibilità di questi vantaggi.
Con i contenuti adatti; raccontando la propria storia aziendale; fornendo informazioni e spiegazioni trasparenti, riusciremo a generare attesa e a creare l’anticipazione dei possibili vantaggi che il cliente otterrà acquistando il nostro prodotto o servizio.
In questo senso, la narrazione non serve a “vendere il prodotto”.
Lo storytelling non deve servire a raccontare il prodotto (quanto è bello, quanto è utile, quanto costa poco a parità di qualità ecc), ma a “vendere il brand”.
Cioè a veicolare i valori del brand, la sua missione; la sua personalità, la sua reputazione (ad esempio grazie alle recensioni e alle testimonianze di chi ha già acquistato; o raccontando casi studio); a costruire un appeal di marca; a far conoscere tutte le figure che lavorano per l’azienda (anche coinvolgendo i dipendenti che raccontano cosa fanno, come lo fanno ecc).
Tutto serve per costruire attorno all’azienda un’aura di umanità e far capire che l’azienda conosce e comprende i bisogni e i problemi del cliente.
In questo modo il processo di narrazione genera fiducia, perché il destinatario del messaggio si sente compreso e sarà più propenso ad instaurare una relazione duratura e quindi più proficua per entrambe le parti.
Rimanendo, invece, sul piano formale (del “che sconto mi fai?”), la relazione sarà per forza di cose superficiale. Per cui, dal punto di vista del cliente, un’azienda vale l’altra e vincerà quella che gli fa il prezzo più basso.
Ricapitolando, fiducia, empatia, reputazione e vantaggio individuale (personale o professionale) sono le leve che permettono una relazione tra cliente e brand che sia duratura e non basata solo su caratteristiche prodotto/prezzo.
Lo storytelling nel business to business aiuta proprio in questo senso. A patto, naturalmente, che sia autentico.